Il peopleraising dopo la Riforma del Terzo Settore

Premettendo che siamo ancora alle prime osservazioni ‘a caldo’ della neonata Riforma del Terzo Settore e che tutto andrà visto – magari tra qualche anno – alla prova dei fatti, tuttavia una qualche riflessione su cosa sta muovendo la riforma vale la pena di farla. Anche perché alcuni aspetti sono entrati in vigore, altri faranno seguito nei prossimi mesi e per offrire uno spunto di riflessione – sul piano strategico – alle organizzazioni, può essere utile tracciare qualche linea prospettica.
In una precedente newsletter abbiamo accennato ad un problema che si è aperto sulle misure agevolative per le donazioni, un tema caro a chi come noi si occupa di fundraising, e sul quale senz’altro torneremo nelle prossime settimane. In questo articolo vogliamo lanciare invece un altro tema, quello del peopleraising, della ricerca, accoglienza e valorizzazione delle risorse volontarie all’interno delle associazioni (e non solo). Tema che investe alcuni aspetti della Riforma non certo secondari.

Il nuovo servizio civile universale

Abbiamo forse già dimenticato, ma il primo decreto attuativo varato, entrato pienamente in vigore il 18 aprile scorso, è quello relativo alla riforma del servizio civile nazionale che diventa servizio civile universale. Una riforma attesa da molti anni, che dovrebbe consentire una migliore pianificazione (posti disponibili inclusi) e che traccia anche alcune linee di novità da tenere presente. Già nel bando recentemente emanato per la presentazione dei progetti 2018 (aperto dal 4 settembre al 30 novembre p.v.), vi è una prima sperimentazione del servizio civile universale relativa ai nuovi istituti previsti dal dlgs 40/2017 quali:

  • flessibilità della durata del servizio dagli 8 ai 12 mesi
  • svolgimento del servizio per un periodo di tre mesi in un Paese UE o in alternativa possibilità di usufruire di tutoraggio per facilitare l’accesso al mondo del lavoro
  • impiego dei giovani con minori opportunità.

Un servizio civile che, almeno in parte, cambia volto, offrendo nuove opportunità, ma anche la necessità di un diverso approccio da parte degli Enti accreditati, dovendo puntare ancor più di quanto non abbiano fatto finora, proprio sui giovani, in ottica di reale investimento. Questo implica la costruzione di una ‘politica per il volontariato giovanile’ all’interno degli Enti di terzo settore, capace di abbracciare anche nuove forme di volontariato e di esperienze – come quella del servizio civile – di ‘avvicinamento’ al volontariato per molti giovani. Occorre però – vale per molte organizzazioni, non certo per tutte – cambiare radicalmente approccio e considerando i giovani come risorsa di cambiamento all’interno dell’associazione, non come risorse da impiegare operativamente in attività e servizi.

Il controverso capitolo dei rimborsi forfetari ai volontari

Inutile girarci attorno, la Riforma consente – di fatto – il rimborso forfetario ai volontari, anche se dice espressamente di vietarlo. Questo è un punto che – se per alcuni può rappresentare una conquista, o quantomeno la legittimazione di un dato di fatto (naturalmente da tutti deprecato) o la pseudo soluzione di un problema amministrativo – pensiamo che possa costituire, non solo un semplice errore, ma motivo per decretare la ‘fine’ del volontariato, almeno come questo si è largamente sviluppato nel nostro Paese e per come esso è: un esercizio gratuito di solidarietà.

Il punto – com’è facile comprendere – non è meramente tecnico, ma investe la sfera filosofica, il come immaginiamo l’opera di un volontario e il come andiamo a costruire nel nostro Paese entità organizzate che permettono ai singoli di fare esperienza di solidarietà gratuita. Un dato culturale e politico.

Sul punto la pensiamo in modo netto, con rispetto per chi non è concorde con questa posizione, ma senza dubbio alcuno. Riteniamo che il Legislatore abbia compiuto con questo passaggio una scelta scellerata che metterà in fortissima crisi le organizzazioni che in questi anni hanno resistito al canto delle sirene dei rimborsi a forfait. La legge su questo è molto chiara. Vediamo in dettaglio.

L’articolo 17 del Codice del Terzo Settore definisce il volontario “una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà.”

Da qui sembrerebbe chiaro il carattere di assoluta gratuità che è pertinente al volontario. Aspetto confermato dal comma successivo laddove si dice che “L’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere rimborsate dall’ente del Terzo settore tramite il quale svolge l’attività soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata, entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente medesimo. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo forfetario.”

E qui qualcuno potrebbe dire che è chiarissimo che abbiamo torto nelle nostre poche valutazioni. Ma basta leggere con attenzione il comma successivo che ci si rende conto di quale contraddizione abbia generato il Legislatore in questo ambito: “Ai fini di cui al comma 3 (il comma precedente, ndr), le spese sostenute dal volontario possono essere rimborsate anche a fronte di una autocertificazione resa ai sensi dell’articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, purché non superino l’importo di 10 euro giornalieri e 150 euro mensili e l’organo sociale competente deliberi sulle tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle attività di volontariato aventi ad oggetto la donazione di sangue e di organi.”
O meglio, forse nessuna contraddizione. Forse ha proprio voluto legittimare ciò che ha espressamente previsto. Ma questo inciderà – lo si sappia – sulla capacità di spiegare ai volontari che il volontariato è ancora gratuito. E si troveranno casi, noi pensiamo più frequentemente di quanto si possa immaginare, in cui su uno stesso territorio, in una stessa comunità, un’associazione decide di non concedere rimborsi (e magari di non accogliere autocertificazioni) e un’altra invece sì. Dove andranno secondo voi i volontari? Si tratta di un grave inquinamento non solo del volontariato organizzato, ma del senso e del modo di fare volontariato. Ne avremo una perdita culturale e politica.

Di più. I più attenti avranno notato che è stata introdotta l’autocertificazione con atto notorio, un modo per ribaltare le responsabilità sul singolo volontario che facesse una dichiarazione falsa o mendace circa i rimborsi. Come dire, i rimborsi forfetari non sono ammessi, puoi però autocertificare spese entro i limiti indicati, e se in realtà non le hai sostenute o se comunque questi sono forfetari, sei tu che hai fatto una falsa dichiarazione. Gli Enti, in questo caso, sono legittimati a ragionare in questi termini, ma finendo per fare il Pilato della situazione. Una cosa insomma che diciamo non riduce granché la burocrazia, se questo era un obiettivo, perché comunque una dichiarazione ex 445/2000 devi comunque presentarla, ma che finisce – nei fatti – per aprire un’autostrada al rimborso ‘forfetario’ (ma non si può dire) di 10 euro al giorno (e massimo 150 al mese).

Chi pensa che la gratuità sia ancora un valore, sappia che dovrà raddoppiare gli sforzi nel motivare i volontari.

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